1. Responsabilità, trasparenza, efficienza, solidarietà e sussidiarietà sono i princìpi che devono guidare una revisione della Costituzione repubblicana d'ispirazione federale. Un federalismo non ideologico, ma strumento di formulazione di politiche pubbliche adeguate ai problemi dell'Italia di oggi, è la strada percorribile per sanare le più gravi patologie del Paese e una soluzione istituzionale vantaggiosa tanto per le regioni del Centro-Nord quanto per quelle del Sud.
La Fondazione Agnelli, sul terreno della ricerca e della riflessione, ha cercato in questi anni di contribuire al dibattito nazionale sulla "forma dello Stato" sottolineando l'importanza di un'adeguata combinazione tra regole costituzionali, assetti fiscali e impalcatura territoriale, nella convinzione che un equilibrato assetto potrà nascere solo poggiando su queste tre gambe.
Ora che il nostro programma di ricerca si avvia alla conclusione, ci pare di poter affermare che la scelta federale, con le conseguenze che essa comporta anche in termini di revisione della Costituzione repubblicana, è oggi la soluzione più idonea per soddisfare le domande di cambiamento dei cittadini italiani e per affermare in Italia un'etica pubblica e una cultura di governo che facciano propri i princìpi della responsabilità, della trasparenza, dell'efficienza e della solidarietà.
Per obiettivi di questa ambizione, forme anche estese di decentramento amministrativo o il rafforzamento di politiche regionaliste non appaiono infatti sufficienti. Occorre invece forgiare uno strumento riformatore di maggiore efficacia e respiro, in grado di affrontare energicamente le patologie italiane del presente, a cominciare dalla crisi della finanza pubblica, e guidare il nostro Paese nei primi decenni del nuovo secolo lungo sentieri sicuri di benessere e di crescita civile, trasformazioni per le quali il generale consenso della collettività e, di conseguenza, la sanzione costituzionale sembrano essere assolutamente indispensabili.
Quando si afferma che un'ispirazione federale è la soluzione più idonea per rispondere alle domande di cambiamento dei cittadini italiani, si vuole esprimere la fiducia che il federalismo possa essere una soluzione vantaggiosa tanto per i cittadini delle regioni più ricche e sviluppate, come quelle del Nord e del Centro, quanto per quelli delle regioni italiane meno avvantaggiate, segnatamente quelle meridionali. per il sostegno che può dare alle potenzialità competitive di ciascun sistema economico-territoriale e per le garanzie che promette in materia di gestione delle risorse pubbliche e di controllo sulle politiche dei trasferimenti, il federalismo sembra infatti avere i requisiti per accontentare i cittadini-contribuenti delle regioni forti, preoccupati per la tenuta delle loro economie in campo europeo e internazionale, e insoddisfatti di una gestione della cosa pubblica raramente equa e trasparente. Ma risposte non meno positive il federalismo può dare alle regioni più povere e, in particolare, al Mezzogiorno. Infatti, lo sforzo che di solito sistemi federali impongono ai propri membri affinché l'autogoverno locale sia effettivo, sia cioè accompagnato da autosufficienza finanziaria e piena responsabilità sulle decisioni di spesa, può offrire anche alle regioni più povere prospettive per uno sviluppo non più eterodiretto. Inoltre, l'autonomia, l'autogoverno e la responsabilità che il federalismo propugna sono gli ingredienti per una società civile più robusta e consapevole del proprio ruolo, condizione, quest'ultima, da tutti indicata come necessaria alla crescita e allo sviluppo delle regioni meridionali.
Quando si affronta un passaggio così delicato come una revisione costituzionale, ci si deve assicurare che il cambiamento si fondi su valori e princìpi sufficientemente generali da reggere all'usura del tempo e alle trasformazioni di breve e medio periodo dell'economia, della società, della politica. I princìpi sui quali appare desiderabile erigere l'edificio federale in Italia sono, come si è detto, la responsabilità, la trasparenza, l'efficienza, la solidarietà. A questi si deve aggiungere un ulteriore principio, la sussidiarietà, sul quale appoggiare la logica costruttiva del sistema di "federalismo possibile" che si vuole per l'Italia.
La responsabilità è probabilmente il più importante dei princìpi menzionati e quello più disatteso nella recente storia italiana. Nella sua formulazione più federale esso richiede che chiunque abbia responsabilità di governo, a ogni livello si collochi, debba potere esser sistematicamente chiamato a rispondere politicamente delle scelte e delle azioni compiute. Ma, in questa sede, si vorrebbe assegnare a questo principio un significato e un compito etico-politico più stringenti, più vicini ai problemi italiani, formulabile nel modo seguente: fare sì che le due responsabilità fondamentali nella gestione della cosa pubblica, la responsabilità delle decisioni di spesa e quella di reperire le risorse necessarie, attraverso la tassazione, non siano più separate. come è noto, proprio a tale separatezza vanno imputate la diffusa inefficienza dei governi nazionali, regionali e locali in questi decenni, come pure una parte non piccola del debito pubblico italiano.
La caratteristica dei sistemi federali di promuovere livelli di governo locale con un'ampia autonomia legislativa, fiscale e finanziaria, più vicini ai problemi di ciascuna realtà territoriale, appare in sintonia con il principio di responsabilità e con una sua generale diffusione in tutte le istituzioni.
Il secondo principio è quello della trasparenza, anche questo tanto ovvio quanto disatteso. Esso impone alle decisioni politiche e operative a qualunque livello di fondarsi su procedure chiare e abbastanza universali da poter essere facilmente interpretate e controllate dai cittadini, soprattutto per quanto attiene, da un lato, all'equità del prelievo fiscale e, dall'altro, alla direzione, all'entità e alla destinazione del flusso delle risorse pubbliche. Il principio di trasparenza significa controllo democratico sul funzionamento della pubblica amministrazione ed è un corollario del principio di responsabilità.
La desiderabilità di reintrodurre nella gestione della cosa pubblica un principio di efficienza non richiede particolari argomentazioni in un paese, nel quale ad elevati e probabilmente insostenibili livelli di spesa pubblica raramente hanno fatto seguito equità redistributiva e servizi adeguati per qualità e tempestività. Per quanto riguarda invece le politiche della solidarietà e del riequilibrio territoriale in Italia, esse sono state nel recente passato viziate in modo così rilevante da opacità delle procedure e da una complessiva inadeguatezza di risultati da rendere giustificata l'insoddisfazione dei cittadini tanto di quelle regioni sulle quali è di fatto gravato l'onere dei trasferimenti, quanto di quelle che dai trasferimenti dovevano trarre beneficio. È evidente che la richiesta di autonomia fiscale per Regioni ed Enti locali, che viene dalle aree più ricche del Paese, trova origine e alimento proprio in questa diffusa insoddisfazione.
Non si può però da questa premessa concludere che un sistema di federalismo per l'Italia debba essere un sistema egoista. L'esperienza internazionale ci insegna che non esiste sistema federale che non preveda forme di solidarietà e che queste di norma operano sostanzialmente a due livelli. Al primo livello di solidarietà a ciascun cittadino in ogni regione viene garantita una soglia minima di servizi e di prestazioni nel pieno rispetto dei suoi diritti di cittadinanza sociale. Vi è poi un altro livello di solidarietà, non meno fondamentale, che si riferisce agli interventi perequativi a favore delle politiche di sostegno ad aree bisognose e di riequilibrio fra territori. In un paese, come l'Italia, caratterizzato da elevati differenziali regionali di reddito un federalismo senza solidarietà determinerebbe una capacità di finanziamento molto diseguale. I trasferimenti perequativi in un sistema federale si giustificano pertanto alla luce:
a) di motivi di equità: nessuno Stato unitario o federale può sussistere in presenza di divari troppo accentuati fra le sue componenti territoriali e, comunque, alcuni diritti essenziali di cittadinanza devono essere garantiti ovunque;
b) dell'esigenza di assicurare condizioni di partenza non troppo dissimili, da cui possa quindi originare una benefica concorrenza fra le istituzioni a tutto vantaggio dei cittadini;
c) della necessità di assicurare il consenso di Regioni ed Enti locali al nuovo sistema.
Con il federalismo non viene dunque meno la solidarietà, ma debbono invece cambiare, e radicalmente, le regole che la guidano. Resta il fatto che nessuna seria riflessione sulle politiche di trasferimento in Italia, a partire da quelle di riequilibrio verso il Mezzogiorno, potrà essere ripresa senza la garanzia dell'informazione e del controllo di qualsiasi allocazione di pubbliche risorse, senza la trasparenza. In questo senso, introdurre chiarezza e ridare governabilità ai flussi finanziari non può che giovare proprio alle regioni che più ne abbisognano, perché soltanto così il trasferimento sarà indirizzato dove veramente è necessario. Vi è dunque, su questo punto, un'oggettiva convergenza fra gli interessi fra le diverse aree del Paese.
Una riarticolazione federale dei poteri e delle funzioni dello Stato deve d'altra parte evitare i rischi della frammentarietà e della sovrapposizione di competenze, così come della riproposizione mascherata di forme di centralismo. Si tratta di ricreare poteri effettivi e statualità reale là dove si è venuta accumulando un'incapacità decisionale e operativa degli attori pubblici; ma occorre anche evitare l'emergere di venti (o dodici) micro-stati, portatori delle ben note patologie che oggi caratterizzano il nostro Paese.
La riforma in senso federale non deve pertanto esser solo una redistribuzione verticale di poteri e risorse (di per sé necessaria), ma un ripensamento d'insieme dei modi e delle forme della presenza della azione pubblica. Un'utile ispirazione può venire da un principio che è oggi oggetto di rivisitazione da parte di diverse culture politiche, la sussidiarietà.
La sussidiarietà richiede che le decisioni da assumere per la soddisfazione delle esigenze comuni spettino alle istituzioni più vicine ai cittadini, mentre alle istituzioni maggiori spettano solo i compiti che non possono essere adeguatamente affrontati dalle istituzioni minori. La valenza della sussidiarietà va intesa non solo in senso verticale (tra livelli di governo) ma anche in senso orizzontale, e nei rapporti tra pubblico e privato. In tal caso, il senso del principio sta nell'assegnare all'azione pubblica il compito di occuparsi di fornire servizi o tutelare esigenze che non siano efficacemente garantiti dal mercato o dalla società civile organizzata. Le autonomie istituzionali degne di tutela alla luce del principio di sussidiarietà non sono dunque soltanto quelle incarnate dai vari governi territoriali, ma anche quelle che garantiscono nel loro insieme il pluralismo sociale e culturale: chiese, associazioni, università e scuole, istituzioni di cultura, sodalizi comunitari.
In quanto ispirazione di un disegno di riforma, il principio di sussidiarietà ha implicazioni sostanziali: poteri e responsabilità spettano al livello di governo più vicino e omogeneo ai problemi da affrontare; ma altrettanto importanti implicazioni procedurali. È infatti evidente che il principio di sussidiarietà, mettendo al suo centro l'autonomia e l'autogoverno ovunque possibili, comporta certamente una logica di decentramento, dall'alto verso il basso, ma al tempo stesso richiede che l'allocazione delle funzioni non avvenga attraverso l'iniziativa unilaterale del livello superiore, ma preveda una presenza non marginale né occasionale delle istituzioni sottostanti al processo decisionale.
Le concrete applicazioni su scala territoriale della sussidiarietà non sono indifferenti alle trasformazioni di natura socio-economica, tecnologica e culturale. almeno tre ordini di trasformazioni nella società italiana sono da considerare a questo proposito.
Il primo consiste negli effetti della tecnologia sull'organizzazione del territorio, in particolare per quanto riguarda i sistemi di trasporto e comunicazione, effetti che si possono riassumere, per il nostro scopo, in una riduzione delle distanze e in un ampliamento degli orizzonti di vita quotidiana legati al lavoro, al tempo libero, alla residenza. Il secondo fattore è invece legato al progressivo spopolamento delle campagne e al conseguente trasformarsi delle tradizionali distinzioni città-contado. Il terzo ha a che fare con l'emergere di forme complesse di organizzazione territoriale, complessità che si estende alle relazioni sottostanti, sempre più difficili da rappresentare in termini di univoche gravitazioni su singoli centri urbani. Tali fenomeni hanno mutato profondamente il panorama del nostro Paese, nel senso di una revisione (soprattutto verso l'alto) delle scale territoriali rilevanti per la vita associata.
Anche alla luce di tali dinamiche, pare di poter affermare che il nuovo rapporto fra realtà socio-economiche locali e livelli di governo in Italia alla ricerca di quella "giusta dimensione", che renda possibili efficienza ed equità, responsabilità e solidarietà, debba essere reimpostato evitando due rischi opposti.
Da un lato, quella limitatezza d'orizzonti che è stato uno dei difetti più evidenti della nostra vita collettiva (non dimentichiamo che il regionalismo nasce contro la logica del campanilismo e le sue ristrette vedute), e che tale resta nonostante la vitalità dei micro-sistemi italiani: in assenza di una capacità di inserirsi in reti di vasto raggio, di trovare legami funzionali con attori di rango superiore, di accettare forme di coordinamento nel governo del territorio, il localismo finisce marginalizzato ed erode le proprie risorse. Un governo territoriale dello sviluppo dovrebbe essere in grado di interpretare puntualmente le esigenze del sistema economico locale, fine per il quale il governo centrale non è adeguato, ma al tempo stesso dar vita a programmi di respiro tanto ampio da poter sorreggere vocazioni competitive su scala europea e internazionale. Ciò implica la capacità di utilizzare strumenti legislativi e amministrativi di grande complessità, con una "tecnostruttura" adeguata e con un peso rappresentativo tale da poter partecipare a pieno titolo alla dialettica interna alla repubblica italiana e alle istituzioni europee. Dall'altro lato, i rischi di un eccessivo ruolo dello Stato centrale tra i poteri pubblici nascono dal fatto che esso presidia una scala troppo ampia, con ciò determinando dimensioni e tempi pachidermici, grovigli burocratici e incertezze informative, iniquità distributive, de-responsabilizzazione delle società locali, emarginazione delle realtà urbane non-capitali, rafforzamento di una cultura della dipendenza, disattenzione ai soggetti di piccola dimensione e, soprattutto, incapacità di rispondere alle esigenze di una pluralità di modelli di sviluppo, di situazioni socio-economiche, di culture locali e di preferenze dei cittadini che caratterizzano il nostro Paese.
2. Gli attori del federalismo
La sussidiarietà è la logica che lega i diversi attori di un "federalismo possibile" per l'Italia: essa assegna a Regioni ed Enti locali ampie garanzie di autogoverno e di autonomia delle risorse. È tuttavia la Regione, con la possibilità di gestire politiche di più ampio respiro e di essere rappresentata in una Camera o Senato delle Regioni, a costituire la struttura portante della riforma federale.
L'applicazione del principio di sussidiarietà al concreto caso italiano ci permette dunque di mettere in relazione la tematica della "giusta dimensione" dei livelli di governo territoriale con l'esigenza di individuare con chiarezza quali sono gli attori di un "federalismo possibile" per l'Italia e quali i rapporti che è opportuno intercorrano fra i diversi livelli istituzionali così identificati.
Abbiamo dunque, da un lato, esigenze di qualità, economia di scala, ampiezza di orizzonti, capacità di inserimento in reti europee e globali, capacità di gestire politiche di significative dimensioni spaziali e finanziarie, che sembrano suggerire dimensioni territoriali piuttosto ampie. Ma, dall'altro, abbiamo istanze di specificità, responsabilità e trasparenza, adattamento alle preferenze dei cittadini e quindi differenziazione, controllabilità democratica, forte interesse allo sviluppo locale, capacità di connettere interessi e attori anche di piccola dimensione, che suggeriscono livelli di governo decisamente sub-nazionali.
Una mediazione tra tali esigenze alla luce di una cultura della sussidiarietà comporta per molte funzioni pubbliche il privilegio di una scala intermedia, che ha dalla sua anche forti ragioni di altro genere (storico, istituzionale, ecc.). La dimensione regionale, ovvero il governo intermedio o mesogovernment incarnato in Europa e America da una varietà di attori istituzionali (Länder, Cantoni, States, Régions, Comunidades Autonomas), emerge così quale necessaria scala di riferimento per un ampio ventaglio di essenziali politiche pubbliche, come accade in quasi tutti i grandi paesi del mondo euro-americano.
Privilegiare la scala regionale di governo non implica però la mera accettazione delle Regioni esistenti, né chiude il ragionamento sugli attori di un sistema federale. Il fatto che in passato i governi regionali non abbiano dato buone prove di sé, sul terreno della classe politica come della cultura amministrativa (spesso non meno centralistico-burocratica di quella statale), invita semmai a cercare di creare davvero nuovi soggetti regionali, dotati di incisivi poteri e quindi portatori di vere responsabilità, non ridotti al rango di appendici del potere centrale, come spesso è accaduto. Il nostro ragionamento e le proposte che ne derivano si muovono dunque nella prospettiva che le istituzioni regionali stiano al centro della riforma federale, ma che in parallelo si operi su di esse un'incisiva terapia ricostruttiva. Il trasferimento di competenze, oggetto di revisione costituzionale, dallo Stato alle Regioni si deve unire a una riforma della finanza regionale, a una ridefinizione (sia pure graduale) dei riferimenti territoriali delle Regioni stesse, a una riforma dei sistemi elettorali, e a una profonda revisione dei modelli amministrativi, volta a rendere le istituzioni regionali autentici enti di governo.
Considerazioni analoghe, in termini di esigenze di autonomia fiscale, riorganizzazione amministrativa e ridisegno dei referenti territoriali, si possono applicare anche agli altri livelli di governo. I Comuni sono in qualche modo più avanti sul piano del rinnovamento, grazie agli effetti della Legge 142, della riforma dei sistemi elettorali e delle innovazioni nel campo della finanza locale. Ulteriori ampliamenti dell'autonomia fiscale degli Enti locali, o revisioni delle stesse modalità dei trasferimenti finanziari statali sembrano però impossibili di fronte all'enorme numero e alle piccole dimensioni medie degli Enti locali, che non consentono la gestione di compiti tecnicamente complessi, né la realizzazione di benché minime economie di scala. Analogamente a quanto accaduto in Belgio, Germania o Inghilterra sembra opportuno procedere sulla strada di una sostanziale riforma degli ambiti territoriali di primo livello, proprio per rispettare il principio di sussidiarietà che implicitamente richiede la capacità da parte dell'ente di livello inferiore di gestire realmente i compiti che ad esso spettano.
Trasformazioni strutturali ed esigenze di efficienza sembrano d'altra parte suggerire per le grandi aree metropolitane modelli di governo a geometria territoriale variabile: per alcuni compiti, si tratterà di favorire l'emergere di unità istituzionali più piccole (municipalità); per altri, di favorire il ricompattarsi di realtà urbane continue e contigue in governi di più vasta scala; in altri casi, si dovranno verificare e comparare le istanze metropolitane e regionali, anche nel senso di individuare servizi e reti di interesse comune, che potranno essere affidati a soggetti non territoriali.
Da quanto si è ora accennato dovrebbe dunque risultare chiaro che, se la Regione rappresenta l'architrave del nostro progetto, un'organizzazione federale dello stato italiano non può sacrificare le ragioni degli Enti locali e, in particolare, le ragioni della municipalità. Queste ultime trovano fondamento in un'eredità storica che connota profondamente il nostro Paese. In uno Stato federale agli Enti locali spettano responsabilità e risorse importanti. I rapporti fra governi regionali ed Enti locali dovranno, di conseguenza, essere ridefiniti, con l'obiettivo di rispettare e valorizzare l'autonomia di quest'ultimi.
La natura dell'esperienza storica italiana consiglia dunque di definire anche in sede costituzionale una soglia minima di garanzie per il livello primario del sistema delle autonomie, così da evitare la sistematica interposizione del livello regionale tra Stato e Comune, accompagnata da un elevato grado di subordinazione del Comune alla Regione, tipica, ad esempio, del modello tedesco.
Ma deve essere altrettanto chiaro che l'evoluzione dell'ordinamento costituzionale in direzione di un sistema federale comporta che le Regioni, in virtù di un'autonomia fondata su competenze, risorse e strumenti più vasti e complessi, possano orientare e coordinare l'attività dei Comuni, pur rispettandone l'autonomia, così come lo Stato può fare nei confronti delle Regioni.
Se è necessario costruire un sistema rispettoso delle autonomie comunali, esistono invece seri dubbi circa la opportunità di definire in sede costituzionale enti intermedi, come le Province.
Ci sono, è vero, diversi tipi di funzioni che sembrano richiedere un'articolazione territoriale la cui dimensione è all'incirca quella delle attuali Province. Ma le ragioni indicate a favore della scelta della Regione come referente essenziale di molte politiche pubbliche ci sembrano sostanziali e comportano che tale istituzione, per potere davvero svolgere i ruoli che le spettano, possa agire con grande elasticità sulla scala spaziale di riferimento delle proprie politiche: possa cioè individuare, nell'ambito di diverse politiche, differenti tipi di bacini o distretti, senza che a questi debba essere dato un ruolo di istituzioni politiche elettive ed autonome. La scala di un distretto scolastico, di un'unità sanitaria, di un'area-sistema industriale, o di un bacino per i servizi di trasporto (tanto per menzionare alcune competenze regionali) deve potere essere identificata dalla Regione. È semmai a tali livelli, e in siffatte istituzioni, che può essere fatta valere una importante implicazione del principio di sussidiarietà, vale a dire un effettivo coinvolgimento del livello inferiore nelle decisioni del livello superiore, anche a tutela delle proprie competenze. Alla luce di quanto detto e nella prospettiva di garantire sì il massimo di articolazione dei livelli di governo territoriale, ma anche di evitare inutili sovrapposizioni, il ruolo delle Province andrà probabilmente ridiscusso.
L'insieme delle considerazioni svolte comporta, come si è accennato, una serie di conseguenze significative anche per un disegno di riforma costituzionale.
Innanzitutto, l'esigenza di evitare il riemergere di tentazioni accentratrici tanto nei rapporti Stato-Regioni, che nei rapporti Regioni-Enti locali suggerisce l'opportunità di inserire nella Costituzione italiana un'esplicita menzione del principio di sussidiarietà, così da incoraggiare comportamenti politico-istituzionali e interpretazioni giurisprudenziali con esso coerenti. Altrettanto importante sembra garantire spazi adeguati per la "sussidiarietà procedurale", ossia per la rappresentazione e il coinvolgimento delle unità inferiori al livello superiore.
Al cuore della questione federale sta dunque l'esigenza di garantire un adeguato coinvolgimento delle Regioni al centro del sistema decisionale, così da evitare che la previsione formale di una forte autonomia venga sistematicamente disattesa nella vita politica sostanziale; ma anche che il sistema diventi nel suo insieme troppo disarticolato, e incapace di disegnare e gestire efficaci politiche di insieme.
Accanto a una adeguata divisione dei ruoli tra Stato e Regione, di cui si tratterà nel capitolo seguente, è dunque necessaria l'istituzione di una Camera o Senato delle Regioni, che sostituisca uno degli attuali rami del Parlamento e sia caratterizzata da una competenza specifica, legislativa e di controllo, a tutela dell'autonomia regionale. Tale competenza potrebbe esplicitarsi sul terreno della legislazione "organica", delle leggi finanziarie, delle leggi costituzionali e delle decisioni relative all'Unione Europea (come si dirà meglio nel capitolo 5). Il modello del Bundesrat, assai più di quello del Senato americano, rappresenta un'efficace ispirazione. Si tratterebbe infatti di definire una Camera di secondo grado, volta non a raddoppiare la rappresentanza dei cittadini, ma a garantire le istituzioni regionali. Se una Camera o Senato delle Regioni, oltre a tutelare il ruolo regionale, è già di per sé garanzia di una coesione tra livelli istituzionali, un migliore coordinamento sui terreni dell'attuazione delle politiche potrebbe inoltre essere garantito da una rafforzata Conferenza tra Stato e Regioni da definirsi possibilmente in sede costituzionale. Soprattutto se accompagnata da una riduzione del numero delle Regioni, un'istituzione siffatta garantirebbe un contesto efficace per numerosi atti di governo che richiedono la leale collaborazione e l'effettiva integrazione tra i poteri della Repubblica. Analogamente, le Regioni dovrebbero dare voce e spazi decisionali a consigli che rappresentino le istituzioni comunali, tanto in sede politica, quanto all'interno delle varie articolazioni distrettuali nell'ambito delle quali andrà decentrata l'azione regionale in varie materie.
Sul piano delle misure fiscali, di cui si tratterà diffusamente nel capitolo 4, sembra saggio garantire che un'ampia autonomia comunale in materia non venga a sottrarre alle Regioni né risorse per le politiche regionali né strumenti di indirizzo e di coordinamento dell'azione comunale. Sarebbe dunque opportuno, anche per questa finalità oltre che per ragioni di trasparenza e controllabilità dei costi, attribuire alle Regioni il compito di perequare tra i Comuni del proprio territorio, potendo a loro volta contare su solidali flussi di redistribuzione nell'ambito della comunità nazionale.
Un'ottica autenticamente federale esige però un'efficace integrazione delle autonomie finanziarie delle Regioni e degli Enti locali in un assetto che non subordini completamente i secondi alle prime. Gli scenari di federalismo fiscale della fondazione Agnelli, presentati nel capitolo 4, si muovono appunto in questa direzione, in quanto riservano ai Comuni tutti i non trascurabili tributi già oggi a loro attribuiti, compreso l'intero gettito dell'ICI; e in quanto non eliminano una forma di garanzia finanziaria di ultima istanza della loro autonomia, introducendo un fondo statale di "dotazione finanziaria generale" sottratto a qualunque interferenza regionale. Tale fondo, e qui sta un'altra garanzia di autonomia, è privo di vincoli di destinazione, ed è concepito in modo da esser di agevole e trasparente gestione. Si evita dunque la interposizione sistematica del governo regionale tra Comuni e Stato, che potrebbe portare con sé rischi di subordinazione degli Enti locali, e quindi di neo-centralismo regionale. Ma al tempo stesso si recide ogni altro legame finanziario tra Stato e Comuni, soprattutto per quanto riguarda la perequazione: si vuole infatti evitare che accanto a un circuito perequativo tra Stato e Regioni (e tra le Regioni stesse), se ne sommino altri (tra Stato e Comuni, tra Stato e Province) con il risultato di rendere macchinosi i flussi e opachi i risultati della redistribuzione.
In definitiva, i Comuni, soprattutto se investiti di ruoli ancor più incisivi, potranno far valere le proprie prerogative e svolgere i propri compiti solo se rafforzati sul piano dimensionale. Appare logico affidare tale compito di riarticolazione a una azione condotta dalle Regioni ma contrattata, attraverso strumenti flessibili, con le istituzioni comunali.
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